La nuova figura di architetto del futuro probabilmente non progetterà. Insegnerà a progettare, forse sarà un consulente. E' l'evoluzione che auspica Yona Friedman per una pianificazione e la realizzazione di spazi che appartengano di nuovo alla comunità che li vive: una riappropriazione dello spazio sociale che passa attraverso la formazione del singolo alla comunicazione delle sue esigenze per mezzo di un linguaggio specifico che è quello dell'architettura. Visione probabilmente drastica. Ma gli spunti di riflessione sono tanti. Il distacco dell'architettura dal quotidiano e dai piccoli problemi ha spesso portato alla costruzione di grandi sistemi urbani inefficaci. Friedman ci racconta di un futuro di povertà e di crisi economica con speranza: abbiamo tempo per conquistarci un sistema di vita e di spazi di nuovo comunitari, perchè vivere in una comunità (piccola - una sorta di villaggio) è più efficace dal punto di vista economico e del risparmio delle risorse energetiche. Il modello di riferimento sono le bidonville (laboratori del futuro) delle grandi metropoli sudamericane ed è in quella particolare condizione abitativa che si riconosce un sistema da poter recuperare per far fronte alla crisi di risorse a cui siamo inevitabilmente destinati. Il libro è la riflessione maturata in tantissimi anni di collaborazioni con l'Onu per lo sviluppo delle comunità del Terzo Mondo. Una sorta di manuale di sopravvivenza. Emerge anche il tema dell'agricoltura urbana, che non è affatto una novità nella "storia urbana" dell'uomo (...): le grandi città industriali del XIX secolo producevano ancora la verdura, la frutta o il latte di cui avevano bisogno. Ad Amsterdam, Londra, Berlino nella prima metà del XIX secolo l'ortocoltura è ancora un'attività urbana. Solo la produzione di cereali si fa in campagna. Nihil novum sub sole.... Ritorno al buon senso e all'essenziale, ovviamente senza rinunciare alla rete!
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